Canapa

Cannabis sativa L., Cannabaceae
Ovvero: Per tirarti su nelle giornate di pioggia…

Albert Gottfried Dietrich, Flora regni borussici, Berlin, 1833-1844
La Canapa è tra le piante più anticamente domesticate dall’uomo e una delle pochissime autoctone del continente europeo di cui si ha certezza che siano state raccolte e consumate anteriormente all’agricoltura. Non risulta esistere più allo stato spontaneo, se non come pianta naturalizzata, sfuggita alla coltivazione in epoche più o meno recenti. L’uso economicamente più rilevante che se ne è fatto nel tempo è quello relativo alla produzione di tessuto e dei canapi necessari per la navigazione a vela, al quale è subentrato, con l’invenzione delle macchine a vapore, quello ludico o terapeutico che dir si voglia, per i suoi effetti psicotropi.

Nel momento in cui scrivo il mercato della canapa edibile si espande velocemente. Per nobilitare questa moda è tutto un copia e incolla frenetico, un voler riscoprire antiche ricette “medievali” che ne attesterebbero l’apprezzamento in una storia dimenticata. Tuttavia di nobile i semi di canapa hanno ben poco: prodotto evidentemente secondario, erano un’ingrediente povero adatto alle mense contadine, mentre l’olio che se ne poteva ricavare era considerato una buona alimentazione… per l’illuminazione. Laddove non esistevano altri oli vegetali più a buon mercato, come in Russia, nei periodi di digiuno poteva sostituire i grassi di origine animale per friggere.

Le più antiche ricette a base di semi di canapa che abbiamo a disposizione sono incluse in quattro libri di cucina del XV secolo di area tedesca e italiana. La cucina francese, inglese e iberica sembrano ignorarla. Nel manoscritto tedesco Mittelniederdeutsches Kochbuch compaiono due pietanze a base di “hennepe” [canapa], di cui la prima è esplicitamente consigliata nei “vasteldaghe” [giorni di digiuno]. Si tratta di una densa crema di latte di canapa con l’aggiunta di miele, pane bianco, pepe, zafferano e un poco di latte di mandorla. La seconda, un “kese” [cacio] alla canapa, è un burro vegetale. Anche di questo alimento si faceva consumo nei giorni di magro quando il burro come tale era vietato, in quanto prodotto animale. La frugalità di questo alimento viene anche in questo caso mitigata dalle “drughe” [droghe], zenzero e rafano macinati di fresco.

Gli altri tre ricettari sono prodotti in Italia. Non a caso: il successo delle repubbliche marinare e il loro dominio sul commercio navale si doveva anche alle estese coltivazioni di canapa che fornivano le fibre indispensabili per l’allestimento delle navi, i canapi di cui la repubblica di Venezia faceva anche largo commercio verso i paesi del nord. Cordami di qualità, quelli italiani, ma cari: è per contrastare questo quasi monopolio che la coltivazione della canapa verrà introdotta nelle colonie americane, detto per inciso.

Per quanto riguarda i “servizi di bocca”, l’opulenta Italia rinascimentale non si faceva mancare niente. Nelle cucine regnava l’abbondanza di ingredienti rari e costose spezie, ma anche l’estrema varietà: ogni erba, ogni carne, ogni pesce vengono utilizzati, fiori, frutta, verdure, ingredienti preziosi ma anche umili: una Camera delle Meraviglie gastronomica, una sontuosa enciclopedia del cibo. Perciò nei ricettari rinascimentali non poteva mancare neppure la modesta canapa, ma anche qui vi compare, oimé, come ingrediente di zuppe di magro quaresimali e di minestrelle per i malati, “pro infirmis”, indica Johannes Bockenheim, cuoco tedesco di papa Martino V, nel manoscritto del Registrum coquine (1430):

“Così si fa la minestra di canapa. Prendi i semi, lavali bene in acqua calda e mettili a bollire lentamente, fino a che non si raddensino, poi colali. Rimetti al fuoco con pan grattato e cipolla rosolata in olio di oliva, stemperali con il proprio latte, condisci con zafferano e spezie buone, cospargi di uva passa e servi. È buona per i malati.”

Troviamo una ricetta un po’ differente nel Libro de arte coquinaria (metà del XV secolo) dell’estroso Maestro Martino, – cuoco a servizio di quel cardinale Ludovico Scarampi che veniva soprannominato “cardinal Lucullo” per la “licenziosità” dei suoi banchetti –: una zuppa di pan bagnato al “latte” di canapa che l’autore include fra gli alimenti adatti alla “Quadragesima”, nella quale son presenti le mandorle e manca la cipolla:

Tractatus de Herbis, Sloane 4016, 1440
Per fare suppa de lacte de seme de canape
Farai bollire un pocho la semenza de la canipa tanto che s’incominci ad aprire la cortecce, et pistala molto bene nel mortale mettendo con essa un poche de amandole monde
[mandorle sbucciate], et distemperandole con acqua frescha le passarai per la stamegna [stamigna – panno che si utilizzava per colare, setacciare]. Poi le mettirai a bollire un pocho, agiognendoli un pocho di sale et di zuccharo abastanza, item un poco di pepe si al gusto ti piace; et un’altra volta lo lassarai bollire per spatio quanto diresti un miserere, et haverai del pane tagliato in fette brusculate un poco, et per ordine a solo concerai in piattello o scudella le ditte fette di pane, buttandovi suso de quello lacte de la ditta semenza di grado in grado secundo che andarai conciando il pane; et finalmente vota fora tutto il ditto lacte regendo il pane che non si sconci. Et un’altra volta lo remetterai di sopra, et questo farai doi o tre volte. Poi gli mettirai di sopra per tutto de bone spetie dolci, et mandala ad tavola.

Saccheggiando il ricettario di Maestro Martino, anche Bartolomeo Platina, erudito gastronomo che presta servizio presso papa Pio II Piccolomini, pubblica nel De honesta voluptate et valetudine (1474) una ricetta di “vivanda canabina”. Alla fine della quale commenta: “Io penso che questo sia simile a li baricocoli de senesi: perche de molte cose laudabile se fa uno tristo mangiare: perchè difficilmente se padisse [digerisce] e genera dolore e fastidio”. Come a dire: perché sprecare preziose spezie per preparare una vivanda così indigesta? I semi di canapa sono nel Rinascimento, insomma, cibo “penitenziale”.


Ben più apprezzati e “stimolanti”, per i loro particolari effetti sul corpo e sulla mente, appaiono invece i dolcetti e le pozioni prodotti con le cime fiorite della pianta maschile. Ben documentati nella letteratura medica e di viaggio, finiscono per far la propria apparizione anche nei libri di cucina propriamente detti. La prima ricorrenza è la voce “Bangue” nel Grand dictionnaire de cuisine pubblicato a Parigi nel 1873: Bangue. – Canapa indiana, che Adanson crede essere il Nepente degli antichi e che è l’haschisch dei moderni”. L’autore dell’opera, pubblicata postuma, è quella gran buona forchetta e uomo di mondo che fu Alexandre Dumas. Lo stesso de L’isola di Montecristo.

Siamo dunque ora nella grotta dell’Isola di Montecristo. Ospiti del misterioso ricco signore a nome Simbad. Ci troviamo forse in un racconto delle Mille e una Notte?… benché ospiti inattesi ci viene offerto uno splendido banchetto che sembra sia stato preparato apposta per noi e solo per noi, perché il nostro sconosciuto anfitrione assaggia appena le pietanze. Al termine, con la frutta, il servitore Alì posa sulla tavola una tazza dorata. Che conterrà? La precauzione con la quale Alì la porta ci incuriosce assai! All’interno della tazza c’è una strana pasta verdastra.

«Ebbene, questa specie di confettura verde è l’ambrosia che Ebe serviva alla tavola di Giove», dichiara il misterioso personaggio. E continua: «Avete mai inteso parlare del Vecchio della Montagna? Egli viveva in una valle e vi aveva il giardino più grande e più bello del mondo. Vi si trovavano tutti i frutti e bei palazzi dipinti d’oro popolati da donzelli e donzelle – come scrive Marco Polo nel Milione – ai quali faceva mangiare una certa erba che li trasportava in sogno nell’Eden. Essi gli erano devoti ed erano capaci di qualunque servizio egli richiedesse, anche di uccidere, pur di non esser cacciati da questo paradiso. Si lasciavano massacrare con serenità, nell’idea che la morte non fosse che un passaggio a quella vita di delizie di cui l’erba – ora davanti a noi – aveva dato loro un saggio. Il loro nome era al-Hashīshiyyūn, Assassini, mangiatori di hashish». Allora questa pasta è l’hashish! Sì, la conosciamo, almeno di nome. «Diavolo!» diciamo, dopo aver inghiottito la pasta divina, «non so se l’effetto sarà gradevole quanto dite, ma la sostanza non mi sembra tanto gustosa quanto affermavate». «Perché le papille del palato non sono ancora adattate alle sublimi proprietà della sostanza. Ditemi, la prima volta che gustaste le ostriche, il tè, i tartufi, li assaporaste con tanto piacere quanto ne aveste in seguito? Potete comprendere il piacere che provavano i Romani nel condire il fagiano con l’assafetida o i Cinesi quando mangiano i loro nidi di rondine? Eh, mio Dio, no! Ebbene, è lo stesso con l’hashish: mangiatene soltanto otto giorni di seguito, e nessun nutrimento al mondo vi sembrerà più squisito di questo che oggi vi sembra fetido e nauseante. Ma ora passiamo nella camera vicina, dove Alì ci servirà il caffè, e ci preparerà le pipe…»

Alexandre Dumas. Assiduo frequentatore di certe interessanti soirée che si tennero una volta al mese per alcuni anni a partire dal 1845 presso l’Hôtel Pimodan a Parigi. Vi si sperimentava l’uso dell’hashish sotto la vigilanza dello psichiatra Moreau de Tours. Fantasias. Avreste potuto incontrarci Nerval, Hugo, Balzac, Delacroix, Baudelaire, Gautier e tanti altri, artisti, letterati e non solo. Il Club des Hachichins, questo era il nome della società. “Prima di questa rivelazione, se vi avessero detto che, in un’epoca di aggiotaggio e di locomotive, esisteva nel 1845 a Parigi una setta di Hashishin non l’avreste creduto, e tuttavia niente di più vero, – secondo l’abitudine delle cose inverosimili”, così Gautier comincia a narrare l’esperienza in un racconto del 1846 pubblicato sulla Revue des Deux Mondes. Epoca di locomotive, l’Ottocento, sì, ma anche di fughe e rêverie, di atmosfere esotiche e fantasmagorie grottesche. Bruchi che fumano narghilé, ombre che vivono di vita propria, fantasmi.


Allora l’hashish non si fumava, si mangiava. Sotto forma di dawamesk – una delle maniere tradizionali arabe di assumerlo –, di cui troviamo una ricetta in Les Paradis Artificiels di Baudelaire. Feste ed ebrezze per cenacoli ristretti, club per intellettuali e borghesi curiosi, nelle quali talvolta venivano associati ai derivati della canapa gli oppiacei, come il laudano. Sedute assistite da distinti medici e farmacisti che fungevano da guru. Se i francesi fecero da apripista, il loro esempio fu ben presto seguito in tutta Europa. Biscotti piccolissi con sopra scritto “mangiami” e bottigliette con sopra “bevimi” dagli inaspettati ed attraenti effetti, che trasportano in luoghi inconsueti da cui saltano fuori bianchi conigli, gatti mammoni ed altre strane creature. Così deve essere andata anche per il timido Charles L. Dogson, professore di matematica ad Oxford ed autore, sotto il falso nome di Lewis Carroll, di Alice nel Paese delle Meraviglie.

Sappiamo come andò a finire. Nel Novecento la canapa diventerà illegale, sul perché e sul percome non vogliamo dilungarci. Resta il fatto che verrà consumata da una comunità sempre più ampia di adepti. Generazioni di scrittori in Europa e negli States racconteranno queste esperienze dando contenuto ad una folta tradizione letteraria farmaco-picaresca: due secoli di viaggi sotto l’effetto delle droghe, alla ricerca dell’amplificazione del sé e di un sacralismo a buon mercato.

Intorno agli anni ‘50 esisteva a Tangeri un ristorante, The thousand and one nights, Le Mille e una Notte. Lo aveva aperto Brion Gysin, poliedrico poeta e artista beat inglese. Il piatto forte era il dawamesk. Ci passava il tempo anche William Burroughs. I due si innamorarono, li ritroveremo insieme a Parigi qualche anno più tardi, nel 1959. In quegli stessi anni la ricetta del dawamesk compare finalmente in un libro di cucina.

Per tirarti su nelle giornate di pioggia
Cibo del Paradiso – dei Paradisi artificiali di Baudelaire! – potrebbe fornire il piacevole rinfresco per una riunione del Club femminile di Bridge. In Marocco si dice che sia più efficace per evitare il raffreddore durante gli inverni umidi se accompagnato da un abbondante tazza di tè caldo alla menta. Euforia e scrosci di risate, sogni estatici ed estensione della personalità in diversi piani simultanei: attendili con rilassata disponibilità. Se ti abbandonerai ad “un évanouissement reveillé”
[deliquio sorvegliato] potrai provare quasi tutto quel che ha provato Santa Teresa.

Prendi 1 cucchiaino di pepe nero, 1 noce moscata intera, 4 stecche di cannella, 1 cucchiaino di coriandolo. Polverizza le spezie in un mortaio. Prendi 1 pugno di datteri snocciolati, 1 di fichi secchi, 1 di mandorle sgusciate e 1 di arachidi; tritali e mischiali insieme. Ora polverizza l’inflorescenza di Cannabis sativa. Spargila insieme alle spezie sulla frutta secca e impasta il tutto. Mescola una tazza di zucchero e un grosso panetto di burro. Amalgama gli ingredienti. Preparane un rotolo e taglialo a pezzi o fanne delle palline della grandezza di una noce. Va mangiata con prudenza, due pezzi a testa sono più che sufficienti.

Reperire la Cannabis può presentare alcune difficoltà, ma la varietà conosciuta come Cannabis sativa cresce comunemente in Europa, Asia e parte dell’Africa, anche se spesso non viene riconosciuta. Viene anche coltivata per la manifattura dei canapi. Nelle Americhe, anche se la sua coltivazione è scoraggiata, la sua cugina Cannabis indica è stata spesso osservata crescere nei vasi alle finestre. Deve essere raccolta e seccata con cura appena va in seme ed è ancora verde.





Questa la ricetta degli Haschich Fudge nel The Alice B. Toklas Cookbook del 1954, compresa nella rubrica “ricette dagli amici”. L’amico in questione è, naturalmente, Gysin. Mentre Alice Babette Toklas è la segretaria tuttofare e compagna nella vita di Gertrude Stein, con la quale viveva a Parigi in quel 27 di Rue de Fleurus dove Hemingway andava di tanto in tanto a farsi un bicchiere di grappa alle susine fatta in casa. Gertrude collezionava Picasso, Alice ricette. Il libro ebbe un enorme successo. Anche se i croccanti alla maria non compaiono nell’edizione americana ma solo in quella inglese. Non tirava una buona aria. Solo due anni dopo, nel 1956, l’United States Narcotics Control Act rendeva il possesso di Cannabis punibile da 2 a 10 anni di prigione. Una droga è una droga è una droga?