Asparago

Asparagus acutifolius L., Asparagaceae
Ovvero: Il re delle verdure…

Mathias de Lobel, Plantarum seu stirpium icones, London, 1576
Nella top ten delle piante spontanee più raccolte in Italia c’è l’Asparago, di cui l’Asparagus acutifolius è solo la più diffusa delle varie specie, tutte commestibili. Atteso dai raccoglitori esperti che conoscono bene il territorio e lo frequentano con assiduità, è facilmente riconosciuto anche dagli odiati raccoglitori occasionali che, per natura incalcolabili, possono arrivare in loco senza preavviso e farne man bassa. I raccoglitori esperti sono così costretti a levatacce mattutine ma è una lotta senza fine. Come per i funghi. Dal punto di vista botanico le vittime di tali forsennate raccolte sono i turioni commestibili che la pianta produce a fine inverno-inizio primavera dal rizoma sotterraneo. Sviluppandosi, diventeranno i fusti legnosi della pianta matura. Senza di essi non avremo la pianta, ricordiamocene e tratteniamoci dal raccoglierli se li vedremo spuntare dal terreno nudo o sotto piante rade.

Il nome del genere deriva dal greco ασπάραγος, aspáragos, di derivazione iraniana, che originariamente significava germoglio, pollone, da cui deriva il latino asparagus. Con questo termine i Greci intendevano tuttavia un’ampia varietà di germogli prodotti da piante differenti. Un po’ come accade anche oggi, quando in molte aree si indicano e raccolgono come “sparagi” indifferentemente, sulla base delle tradizioni locali, oltre agli asparagi veri e propri, i turioni di Pungitopo e i giovani getti di Luppolo, Vitalba e Tamaro, per citare i più popolari. Non risulta che gli asparagi fossero coltivati prima dell’era cristiana né dai Greci, né dagli Egiziani, come è spesso riportato. Ci si deve perciò volgere alla cultura agraria romana per trovare le prime testimonianze dirette della loro coltivazione.

Mosaico con asparagi, via Prenestina, Toragnola, 350-75 d.C. ca.
I Romani li adoravano. Li coltivavano sapientemente già all’inizio dell’era cristiana e probabilmente ancora prima, se consideriamo autentici i passaggi del De Agricultura di Catone (II sec. a.C.) dove se ne parla. Secondo gli agronomi latini ci volevano ben tre anni di lavorazione per ottenere dalla corruda, l’asparago selvatico, il pingue asparagus: durante il primo ed il secondo anno le piante – nate da seme o da rizoma – venivano distanziate, concimate, sarchiate e pacciamate con devozione; nel terzo anno si praticava un debbio primaverile: il terreno veniva cioé bruciato in superficie e per facilitare quest’operazione, oltre che per farlo crescere all’ombra, l’asparago veniva preferibilmente seminato nei canneti. A questo punto, finalmente, se ne potevano raccogliere i turioni rinascenti, che venivano consumati per tutta la stagione fino alla fine dell’estate per diversi anni a seguire. Questa coltivazione così lunga e sofisticata permetteva di ottenere i più spettacolari risultati. «La natura ha creato gli asparagi selvatici, perché chiunque ne possa cogliere, ma la coltivazione li perfeziona al punto che tre asparagi coltivati a Ravenna raggiungono il peso una libbra. Che prodigi non si fanno per la gola!» Prodigi evidentemente dovuti alla forza del denaro. Possibile che la ricchezza crei differenze anche tra i prodotti che la natura offre spontaneamente? – si domanda Plinio.

L’asparago coltivato, insomma, non poteva che essere un prodotto per ricchi. Mangiarne sta ad indicare alto censo, fino a divenire segno di ricchezza sfrontata. «Guarda quell'aragosta, che vien servita al padrone, come guarnisce il piatto col suo lungo corpo e come in mezzo a un mare di asparagi con la sua coda sembra spregiare gli invitati, mentre nelle mani di un servo gigantesco passa trionfante tra voi. E a te, vero banchetto funebre, mezzo uovo che avvolge un gamberetto in un piattino», scrive il povero Giovenale costretto a lambire alla mensa dei potenti dalla sua imbarazzante condizione di cliens (Satire). L’amico Marziale, che condivide la sua stessa sorte, all’asparago dedica addirittura un epigramma: «Mollis in aequorea quae crevit spina Ravenna, non erit incultis gratior asparagis», le punte delicate cresciute nell’umida Ravenna non son d’agresti asparagi più grate. Ma i ricchi Romani, proprietari di terreni e ville rustiche, a dire il vero non si facevano mancare né gli uni né gli altri. Quelli selvatici li conservavano in salamoia e sott’aceto in gustose “giardiniere” oppure li seccavano: «disecca gli asparagi e, quando tu voglia usar­ne, falli rinvenire nell’acqua calda», scrive Apicio.

Con la caduta dell’impero romano la distribuzione della proprietà fondiaria cambia profondamente e l’Italia viene segnata da un decadimento generalizzato della cultura agraria. A nulla erano serviti i provvedimenti di alcuni imperatori per ricondurre i cittadini alla terra durante il periodo della decadenza, le colture vengono progressivamente abbandonate e ampi spazi agricoli tornano foresta. Le fonti altomedioevali pervenuteci sono estremamente rarefatte e conseguentemente per un periodo assai lungo poco sappiamo anche del nostro asparago, del suo consumo, della sua coltivazione. Questo vuoto di documentazione permane fino alla compilazione dei Geoponica bizantini (X sec.) e alla trattatistica araba.

Al-Ghāfiqī, Kitāb al-Adwiya al-Mufrada (Libro dei Semplici), XII sec.
Il grande agronomo arabo andaluso Ibn al-Awwām (XII-XIII sec.) nel suo monumentale Kitab al-filaha (Libro dell’agricoltura) si diffonde lungamente sulla tecnica di coltivazione degli asparagi. Cita l’autorità di molti autori la cui opera non è giunta a noi se non in copie successive spesso frammentarie, fornendoci indirettamente informazioni sulla cultura agronomica precedente relativa ad una vasta area mediterranea. Veniamo a conoscenza anche dell’uso culinario che se ne faceva, che in più punti non si discosta molto da ciò che già sappiamo dai Romani: «Secondo l’Agricoltura nabatea, i popoli di Babilonia fanno bollire nell’acqua la parte succulenta degli asparagi; li condiscono con aceto, salamoia e olio di oliva. Li mangiano con il pane. Si aggiungono spesso ad altri alimenti, soprattutto quelli acidi, facendoli cuocere fino a che non hanno assorbito i grassi. Così preparati sono molto buoni. Si possono [...] mettere crudi con sale e aceto in piccoli vasi. Dopo averli lasciati marinare per un mese [...] sono molto buoni da mangiare, se li si lascia ancora più tempo, ne risulterà una preparazione ancora migliore. Se dopo averli levati dalla marinatura gli si versa sopra dell’olio e li si mangia con il pane, li si troverà eccellenti. [...] Si fanno seccare gli steli dell’asparago all’ombra e al sole; quando sono perfettamente secchi, li si polverizza in un mortaio; aggiungendo una certa quantità di farina di grano o d’orzo, se ne ottiene un buon pane nutriente che viene consumato con l’aceto. Si mangia tagliato a pezzetti, condito con olio e aceto e cosparso di erbe.»

Tacuinum sanitatis, Italia (Verona?), fine XIV sec., Österreichische-Nationalbibliothek, Cod.Ser.2644
A partire dal XIV sec. si cominciano a conservare le ricette culinarie in raccolte coerenti, i primi veri e propri libri di cucina. Nel ricettario catalano Llibre de Sent Soví (1324?) compaiono ben due modi di cucinare gli asparagi: «Se vuoi fare gli asparagi, dopo averli bolliti e fritti, mettici del vino bianco e delle spezie comuni e un poco di buon zucchero bianco. Inoltre, se hai molti asparagi, che vuoi preparare come piatto da servire in ciotole [come minestra lenta], lessali come si è detto sopra, strizzali e friggili come gli spinaci. Quindi aggiungi latte di mandorle e mettili a cuocere fino a che tutto sia ben addensato e cotto. Quindi servili in ciotole e spolverizza con cannella. Si può mangiare sia nei giorni di carne che durante la Quaresima.» La ricetta non specifica le spezie da utilizzare, ma le spezie più “comuni” di questo manoscritto sono, oltre la cannella – una spolverata di zucchero e cannella sono il più classico condimento della cucina tardomedievale e rinascimentale –, lo zenzero, i chiodi di garofano, il pepe nero, il pepe lungo, lo zafferano, i grani del paradiso, il cubebe, la noce moscata. Insomma, tutta la splendida gamma aromatica delle spezie esotiche che ostentava la tavola carica di profumi e sapidità dei Paperoni dell’epoca. Un’altra ricetta, ben più spartana, quasi rustica, è contenuta in uno dei più antichi libri di cucina italiani: gli asparagi allo zafferano del Libro de la cocina (Anonimo toscano, XIV sec.) della biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna: «Togli li sparaci, e falli bollire; e quando sieno bulliti, ponli a cocere con oglio, cipolle, sale e zaffarano, e spetie trite, o senza.»

Adriaen Coorte, Natura morta con asparagi, 1697, Rijksmuseum, Amsterdam
Si tratta comunque di ricette sporadiche che, benché l’asparago risulti coltivato, testimoniano del basso favore di cui godeva. Perché riacquisti il suo titolo di re delle verdure come al tempo dei Romani, bisogna aspettare la metà del XVII secolo, quando, in un lasso di tempo brevissimo, compirà la rapidissima scalata della hit parade degli ortaggi. La politica si fa anche attraverso lo sfoggio del lusso ed in quel momento la corte di Luigi XIV, Re Sole, dominava l’immaginazione europea. La cultura della tavola e le belle maniere favorivano politica e affari e in Francia nobili e ricchi borghesi si contendono i grandi cuochi a suon di quattrini. E i grandi cuochi francesi ben presto detteranno legge in tutta Europa. C’est la vie! Saranno loro ad operare una sorta di “rivoluzione” del gusto, ad imporre una svolta fondamentale della gastronomia. Radicale riduzione delle spezie esotiche a favore di erbette aromatiche locali, abbondanti contorni di verdura, tanto burro, il dolce sempre e solo a fine pasto, questo il nuovo credo di cui Le Cuisinier françois (1651) di La Varenne fu la bibbia. «Lo guarnirete di asparagi e di carciofi, poi servirete», è il ritornello che chiude spesso le sue ricette. Nei suoi Asperges à la sauce blanche la salsa in questione si prepara con burro, poco aceto, sale, noce moscata e un giallo d’uovo a legare. Similmente François Massialot ne Le cuisinier roïal et bourgeois (1691): «Asparagi alla crema – Rompete i vostri asparagi in piccoli pezzi e fateli un po’ sbianchire in acqua bollente. Poi si ripassano al burro in una casseruola o con del lardo, se non si ha del burro di buona qualità, facendo attenzione che il tutto non sia troppo grasso. Gli si aggiunge del latte e della crema e li si condisce dolcemente, aggiungendo un mazzetto di erbe aromatiche. Prima di servirli bisogna stemperare uno o due tuorli d’uovo nella crema di latte, per legare i vostri asparagi.» La Haute Cuisine française c’è già tutta, pronta a dominare, fino ad oggi, la cucina nell’epoca della globalizzazione.

Chaumeton, Poiret, Chamberet, Flore medicale, Paris, 1833
Torniamo ora al nostro buon asparago selvatico. La politesse e la tecnicità della cucina francese un po’ mi attraggono ma più spesso mi annoiano. Mi annoiano i bianchi asparagi coltivati. Io condivido l’opinione del poeta Marziale: non c’è asparago coltivato che si possa avvicinare per intensità e qualità di gusto agli amari e ferrosi cugini selvatici. Si possono preparare seguendo le ricette gourmet destinate agli obesi cugini orticoli, certo. Ma sono dell’idea che perché si rinizi a cucinare nelle case (ed è bene che accada!) si debbano reimparare tecniche molto più semplici e sobrie nella preparazione dei cibi. Perciò forse il modo migliore per prepararli resta ancora quello di bollirli o cucinarli a vapore – meglio se diritti legati in mazzetti per rispettare le punte, più delicate – e poi condirli o ripassarli brevemente in padella. Tradizionalmente, come si è visto anche qui in questa breve storia, si associano agli asparagi componenti acide (aceto o limone), l’uovo (sodo a fettine o frantumato, in camicia), materie grasse (olio, burro, pancetta), formaggio. Aromi semplici: pomodoro secco, erbe aromatiche, aglio, scalogno, cipolla. E a partire da qui tutto un mondo si dispiega.

Ultima breve nota finale. Gli asparagi selvatici sono spesso oggetto di raccolta selvaggia, anche questo si è detto. Non trasformiamoci da lesti in lestofanti: il buon raccoglitore deve esser consapevole dei ritmi biologici e della capacità rigenerativa delle piante che raccoglie, la natura non è il banco del supermercato!