Ros solis

Drosera rotundifolia L., Droseaceae
Ovvero: Dopo il cavolfiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio…

Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, illustrazione di Attilio Mussino, Firenze, 1911
«Se mi aiuti a portare a casa una di queste brocche d’acqua, ti darò un bel pezzo di pane.» Pinocchio guardò la brocca e non rispose né sì né no. «E insieme col pane ti darò un bel piatto di cavolfiore condito coll’olio e coll’aceto» soggiunse la buona donna. Pinocchio dètte un’altra occhiata alla brocca, e non rispose né sì né no. «E dopo il cavolfiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio.» Alle seduzioni di quest’ultima ghiottoneria, Pinocchio non seppe più resistere, e fatto un animo risoluto, disse: «Pazienza ! vi porterò la brocca fino a casa!»

Ho conosciuto la misteriosa ghiottoneria leggendo Pinocchio. Il rosolio. Non era affatto chiaro di che si trattasse – me lo immaginavo come una gelatina rosa molto liquida –, né se esistesse o fosse esistito veramente e non fosse un’invenzione di Collodi. Negli anni ‘60, quando bambina lessi Pinocchio, non era più di moda. Troppo dolce, troppo “da vecchia signora”. Negli anni in cui Collodi scriveva invece era popolarissimo. Il migliore si produceva a Torino. Ma che ha a che fare il rosolio con l’amara e acre drosera? Cercherò di chiarire l’imbrogliatissima faccenda.

La Drosera è una rara, piccola e delicata pianta con foglie a cucchiaio disposte a rosetta. È carnivora: le foglie sono ricoperte da lunghe ciglia tentacolari porporine che secernono gocce di un liquido zuccherino e vischioso che attira gli insetti, li cattura e li digerisce. Nel contempo le ciglia, sensibilissime, si richiudono su di sé imprigionandoli. Cresce in luoghi umidi e muschiosi nelle aree fredde e temperato-fredde.

Nella letteratura medico-botanica non se ne trova traccia prima del Cinquecento, quando compare come Ros solis, in latino rugiada del sole. Con l’attuale denominazione linneana drosera (dal greco, rugiadosa), per via delle goccioline che si formano sulle sue foglie, veniva invece talvolta denominata quella che oggi chiamiamo Alchemilla. “Alchemilla”, a sua volta, viene dall’arabo al-kimiya, da cui derivano le parole alchimia e chimica.

La raccolta della rugiada, Mutus liber, La Rochelles, 1677
Nel pensiero alchemico, per la segreta analogia fra cosmo e microcosmo, al sole corrisponde l’oro e la “rugiada” – metafora dell’Opera alchemica per eccellenza, la distillazione –, sono i raggi di sole distillati da cui si produce l’oro potabile. L’oro, vera ossessione rinascimentale, “guarisce tutte le malattie e ringiovanisce i vecchi”, aveva scritto nel XIII secolo Arnaldo da Villanova, – dell’alchimia considerato il padre, – tanto che “molti nobili, soprattutto prelati, fanno bollire dei pezzetti d’oro con i cibi; altri lo assumono con i cibi o con elettuari [sciroppi aromatici], altri in una limatura, come nel preparato denominato diacameron, che contiene limatura d’oro e d’argento. Altri sono soliti tenere un pezzetto d’oro in bocca e poi deglutire la saliva. Altri convertono l’oro in acqua potabile, e basta una modica quantità di quest’acqua una volta all’anno; ciò risulta conservativo della salute e capace di prolungare la vita, in un modo quasi incredibile”.

Nel Rinascimento la passione per l’alchimia si diffonde al punto da farcela apparire una sorta di delirio collettivo. Naturalisti e ciarlatani, principi, monaci e porporati si danno un gran daffare intorno a fornelli ed alambicchi: distillano erbe, preparano soluzioni, trasmutano metalli. Dai metalli vili cercano di produrre l’oro. Non staremo qui a filosofeggiare su quanto ideale fosse l’impresa. Dopo un esordio italiano presso la corte medicea con Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, la tradizione ermetico-magica percorre non come un fremito ma come un terremoto tutta l’Europa rinascimentale. La mappa dello sviluppo della cultura alchemica si sovrappone presto a quella delle guerre di religione e della Riforma protestante. L’Inquisizione della Chiesa romana respinge la “perniciosa magia” al di là delle sue aree di influenza con roghi e interdetti.

Heinrich Khunrath, Medulla destillatoria, Leipzig, 1594
La ros solis è cosa di terre nordiche e fredde. Terre protestanti. Intorno al 1595 viene stampato in Germania uno strano libro, il Medulla destillatoria di Heinrich Khunrath, alchimista allievo di Paracelso, in cui si descrive il “vero” modo per produrre l’oro potabile: con la ros solis distillata, “più cara dell’oro e delle pietre preziose, a cui nessuna pianta sulla terra è paragonabile. [...] Chi possiede questa Quintessenza, che sia curabile o incurabile, eccezion fatta per i casi di morte naturale predestinata, [...] guarisce completamente e può miracolosamente curare e guarire. Inoltre se di questa Quintessenza mischiata con la Quintessenza dello zucchero, con l’Oro potabile e con la Quintessenza di perle [...] se ne assume uno scrupolo al giorno in un bicchierino di vino, [...] si potrà trascorrere la vita fino all’ora della morte che Dio ha predestinato.”

Clima più disteso e ben diversa graziosa liberalità regna nell’Inghilterra elisabettiana dove la ros solis, con il nome corrotto di Rosa Solis, sembrerebbe ingrediente abituale di cordiali, idromeli e vini ippocratici: “Prendi un gallone di erba Rosa-Solis raccolta in Luglio, [...] aggiungi mezzo pound di datteri, di cannella, zenzero e garofani un oncia di ognuno, grani [Kermes] una mezz’oncia, di zucchero un pound e mezzo, quattro pugni di petali di rosa rossa freschi o secchi, immergi il tutto in un gallone di buona aqua composita [acquavite] e sigilla con la cera per 20 giorni, agita ogni due giorni. [...] Se vi si aggiungono 2 o 3 grani di ambra grigia e muschio, avrà un piacevole profumo. Alcuni vi aggiungono benzoino, corallo, perle finemente polverizzati e foglie d’oro” (Sir Hugh Plat, Delightes for Ladies, 1602). Non per tutti, evidentemente.

Basilius Besler, Hortus Eystettensis, 1613
La Rosa Solis entra nel 1618 tra i rimedi della Farmacopea di Londra. La pubblicazione di queste farmacopee, ufficiali o private – addirittura domestiche –, si andava incrementando. Vi vengono descritte le droghe fornite dagli speziali, le ricette e i procedimenti da seguirsi per la preparazione dei medicamenti. Le imprese editoriali di queste opere, le cui vicende furono ben più travagliate e complesse di quanto si possa a tutta prima pensare, fra le difficoltà dell’autorizzazione a stampare, i plagi, gli interdetti, le scomuniche e le sanzioni, richiedevano buone aderenze nelle camere del potere e tracciano in buona misura il disegno dell’assetto politico e culturale che l’Europa moderna andava prendendo.

In Italia è Venezia, capitale europea – seppur in declino – dell’editoria e del commercio di spezie e preparati, il principale baluardo delle pratiche alchemiche. Nel 1667 la Spezieria allo Struzzo alle Mercerie di Antonio de Sgobbis pubblica il Nuovo, et universale theatro farmaceutico, una farmacopea informatissima di tutta la letteratura medico-farmaceutica contemporanea, che ci dà un’idea di come veniva condotta un’illustre officina farmaceutica seicentesca. L’assortimento di queste botteghe aveva qualcosa di impressionante per quantità e qualità: spezie esotiche ed erbe comuni, minerali, terre, resine e cere, scorpioni, mumia (parti di cadaveri), sangue (di uomo “giovane e sano”), serpenti, formiche, rospi. Un repertorio vasto e vario di materiali eterogenei collezionati all’insegna dell’“universalità”, da combinarsi e trasmutarsi secondo regole ove superstizione e scienza nuova si compenetrano. Un apparato che associeremo più volentieri all’immagine classica della strega china sul suo calderone piuttosto che a quella di uno stimato farmacista.

Nella farmacopea di Sgobbis non manca la Rosa solis, Rorissolis, o Rosa solis altramente, Tolta dalla Farmacopeia di Londra.
“Ros Solis o Rorella, Rose rosse, Angelica, Noce moscata, Seme d’Aniso Coriandro [coriandolo], Galanga, Zenzero, Gariofili [chiodi di garofano], Cardamomo maggiore e minore, Zeodaria, Calamo Aromatico, Santali Citrini e Rossi [sandalo], Cinnamomo, Acqua di Vite ottima, Sugo o Liquore di Rorella raccolto ne’ giorni calidissimi dalle foglie che sudano, Acqua di tutto Cedro. Tutto stia in Infusione per giorni otto in Vasi di vetro ben chiusi; eccettuati li Santali; poi si distilli, nel Liquor distillato si mettan li Santali Rossi & Citrini minutissimamente tagliati, per il spazio di Giorni 20. Poi si feltra il Liquore, quale vien edulcorato con Zuccaro dissoluto con l’Acqua di Rose & Fiori di Cedro quanto basta & cotto in consistenza di Giulapio.”

Il Settecento mette fine a questa corta ma intensa storia. Il processo accellerato di secolarizzazione si espande su costumi ed abitudini e pure l’alimentazione si laicizza. I liquori sempre più scopertamente si considerano un mezzo di piacere e sempre meno medicina. Dalle ricette dei cordiali sparisce definitivamente la ros solis, pianta dal valore più simbolico che curativo e certamente non gradevole al gusto. Non ne rimane che il nome: per rossoli o rosolio si intendono ora liquori alcolici aromatici (con o senza le rose) addolciti con abbondante zucchero. A metà secolo il più pregiato è riconosciuto da tutti quello di Torino. E qua si chiude il cerchio della storia.

E il rosolio siciliano? In Sicilia, dove la drosera non cresce, si produceva da sempre il dolcissimo e rosato giulebbe, – dall’arabo julāb, composto dalle parole persiane ghoul, rosa, e ab, acqua –, quello, insomma, a cui la nostra immaginazione corre quando pensiamo al rosolio. Invenzione degli arabi amanti dello zucchero e delle rose, gli stessi a cui si deve l’invenzione della distillazione. Dalle fonti arabe medioevali la preparazione dello julāb prevedeva la macerazione in acqua di petali di rosa insieme ad altre sostanze medicinali (aloe, zafferano, muschio, canfora, ecc...), e la sua successiva raccolta tramite una rudimentale distillazione in alambicco (al-inbīq). A questo punto la faccenda si fa più chiara. Il rosolio è l’arabo giulebbe travestito da rossolis. Non un liquore di rosa né un liquore alle rose denso come olio. Né, tantomeno, un liquore diffuso in Francia da Caterina de’ Medici, andata sposa nel 1533 a Enrico di Valois, divenuto poi re di Francia nel 1547: sarebbe dovuto accadere troppo presto, semplicemente.

La cucina è alchimia, vero. Se possedete un alambicco potete provare a confezionare l’autentico rossolis. Non so però rispondere alla domanda se sia meglio eliminare le mosche appiccicate alla pianta oppure no. Altrimenti, se siete di altro umore, con del rosolio già pronto, potete cimentarvi nella ricetta futurista dei Garofani allo spiedo di Marinetti: “Lunghi snelli cilindri di sfogliata. Infilarvi su ciascuno quattro garofani: bianco, rosa, rosso, porpora, rosolati nel rosolio freddo o nel Roob Coccola di Zara. Mangiandoli pensate al fu stile floreale”.



Ma non l’ho detta tutta, perché la storia della drosera ad oggi non si è conclusa del tutto. Viene ancora impiegata come rimedio omeopatico per la cura dell’acne e della tosse. L’European Cooperative Programme for Crop Genetic Resources Networks (la nostra vecchia Europa è specialista nella invenzione di criptici organismi dai nomi tanto prolissi quanto burocrateschi) nel 2002 ha pubblicato un Report of a Working Group on Medicinal and Aromatic Plants, nel quale la inserisce tra le piante in pericolo perché danneggiate da eccesso di raccolta non sostenibile. Ciò nonostante, i luminari della medicina omeopatica ostinatamente persistono nello studio delle virtù della drosera, “una dei più potenti agenti medicinali del nostro paese”, sosteneva Samuel Hahnemann, riconosciuto padre dell’omeopatia: “Se uno volesse, ad esempio, diluire una goccia di succo di drosera alla decimilionesima parte, aggiungendo ad ogni bottiglia almeno 20 energiche succussioni, fatte sbattendola fortemente sul palmo della mano, allora in tal caso questa medicina, che ho scoperto essere un ottimo rimedio per la tosse canina, diverrà così potente alla quindicesima attenuazione che una goccia di tale soluzione in un cucchiaino d’acqua potrebbe mettere in pericolo la vita di un bambino; invece, se in ciascuna diluizione la bottiglia è succussa solo due volte (con due colpi), curerebbe il bambino senza alcun pericolo”. Non possiamo negare che una forte vena di magica follia percorra ancora potentemente la nostra cultura. Mi domando se sia più folle il razionalismo fittizio del sistema politico-economico dominante con la sua medicina “autoritaria” o quelle pratiche di medicina “alternativa” istituite su un sistema industriale del tutto somigliante, in evidente contraddizione dello spirito autentico che ne ha animato la nascita.