Equiseto

Equisetum arvense L., Equisetaceae
Ovvero: La pianta fossile…

Carl Axel Magnus Lindman, Billeder af Nordens Flora, Copenaghen, 1917-1923
30-25 Milioni di anni fa, quando la terra era popolata da enormi felci arboree e mostruose calamites, da creature acquatiche e da rettili – i mammiferi erano di là da venire –, gli Equiseti c’erano già. Erano enormi, come c’era da aspettarsi, visti i tempi. L’equiseto di oggi è, in forma nana, il fossile vivente di quelle piante gigantesche. Il nome “equiseto” deriva dal latino “equus”, cavallo, e “saeta”, crine, corrispondente dunque al suo nome volgare di “coda di cavallo”. Nella sua denominazione in diverse lingue europee ritroviamo spesso la coda ma cambia l’animale: «Purché si tratti di una coda, poco importa al linguaggio popolare ch’essa sia quella d’un cavallo o d’un asino, d’un topo o d’un gatto, d’un lupo o d’una volpe» (Bertoldi, Un ribelle nel regno de’ fiori, 1923). Fatto sta che, siccome è ruvido perché contiene un’abbondante quantità di silicio, lo si usava per polire i metalli o per strofinare le padelle, come uno spazzolone o una paglietta metallica, da cui il nome di “rasperella”. Ma tutto vien buono, quando si ha fame. «La cauda equina o cavalina, cioè equiseto o ippouris, con tutta la sua asprezza in qualche cosa vi vole essere ancora lui nei cibi, porgendo il suo fiore al tempo di primavera e di quaresima, che si chiama pesce pagliaro vulgarmente […] Questo si frigge nell’olio infarinato como si fa il pesce» (Costanzo Felici, De l’insalata, 1572). Ancora: «produce questa, quasi nel nascimento suo, un certo germoglio grosso e tenero, simile a una ghianda, il quale chiamano i nostri maremmani Sanesi paltrufali, usati da loro nei cibi la quaresima, prima cotti lessi nell’acqua, e poi infarinati e fritti nella padella in cambio di pesce» (Pierandrea Mattioli, Discorsi, 1568).

Ad imitazione dei più vetusti raccoglitori rinascimentali, l’indefesso amante di cibo selvaggio, mentre passeggia a testa bassa lungo ruscelli e fossi fra febbraio e marzo riconosce prontamente queste strane forme vegetali a metà fra un fungo e un asparago grassoccio in cui è incappato. Li riconoscerà per essere i fusti fertili dell’equiseto. Sono biancastri o rossicci e terminano con una sorta di grossa spiga (strobilo) coperta di piccoli scudi (gli sporangi) che producono le spore che permettono alla pianta di diffondersi. C’è poco tempo per la raccolta, durano pochissimo, e dopo la sporificazione avvizziscono. Se il nostro insalataro radicale è un esperto sa che Equisetum arvense e Equisetum telmateja sono edibili, ma che altre specie no, anzi son tossiche. Di quelle buone raccoglierà gli strobili quando (e solo quando) sono immaturi, in pratica quando sono ancora verdastri. Li ripulirà con cura delle guaine rigide in corrispondenza dei nodi e degli sporangi. Dopo averli ben lavati, li lascerà in acqua e limone per un paio d’ore. Poi finalmente li cucinerà, come fossero asparagi. Hanno un gusto diverso, più erbaceo, forse si possono avvicinare al sedano. Anche i fusti sterili dell’equiseto sarebbero edibili. Ci si domanda se ne valga la candela. Io dico di no.