Topinambur

Helianthus tuberosus L., Asteraceae
Ovvero: Piante con nome da cannibali…

Firens Pierre, Sauvages amenez en France pour estre instruits dans la Religion Catholique, Paris, 1613

Nel 1613 sei Tououpinambaoult arrivano dal Brasile per venir battezzati pubblicamente a Parigi davanti al re Luigi XIII e a tutta la popolazione. Sono nudi, in una prima tappa a Rouen li si riveste piamente di incongrui panni all’europea: gorgera, farsetto, pantaloni sbuffati, scarpette col fiocco, una bella catena con la croce sul petto. Ornati delle loro piume e armati di maracas si esibiranno in una danza davanti al re e alla regina, suscitando l’entusiasmo della corte. Il musicista Ennemond Gaultier opportunamente ci scriverà sopra una Sarabande à la Toupinambá: «La si considera uno dei più eccellenti pezzi che si possano ascoltare» scrive Malherbe all’amico Peiresc. Il giorno del loro battesimo la cittadinanza esulta, la gente accorre da tutte le parti e alle porte del Convento dei Cappuccini di rue Saint-Honoré si devono mettere le guardie per trattenere la folla in delirio. I Tupinamba del Brasile affascinano i Francesi. La loro nudità e il cannibalismo, le maracas, le piume, i papagalli, gli ananas. Non sono però i primi autentici Tupinamba ad essere approdati in suolo di Francia. Da più di un secolo i commercianti francesi, in particolare normanni, avevano stabilito lucrativi rapporti commerciali con le popolazioni del Brasile, da cui acquistavano essenze e materie tintorie, prodotti della foresta amazzonica; al ritorno dalle colonie i viaggiatori portavano spesso con sé degli indi. Come quell’Essomericq figlio di un capo Tupinamba che arriva a Honfleur nel 1505 con Paulmier de Gonneville. O i ben cinquanta Tupinamba nudi danzanti che, insieme a 250 marinai normanni che si fingono tali – anch’essi nudi –, simulano scene di vita selvaggia durante la Gioiosa Entrata di Enrico II di Valois a Rouen nel 1550. Uno spettacolo decisamente “fuori luogo”.

L’entrée à Rouen du roi et de la reine, Henri II et Catherine de Médicis, 1550, Société des bibliophiles normands, 1885


Claude de Abbeville, Histoire de la mission des pères Capucins, Paris, 1614
Il 19 marzo 1612 i Padri Cappuccini Yves d’Évreux, Claude d’Abbeville, Arsène de Paris e Ambroise d’Amiens avevano lasciato il convento di Saint-Honoré a Parigi per prendere il mare a Cancale. Partecipano ad una spedizione che sbarcherà nell’isola di Maragnan – nel nord del Brasile – per prenderne possesso. L’idea è quella di crearvi una base stabile per il commercio con l’entroterra. La colonia si chiamerà France Équinoxiale. Non durerà a lungo, solo fino al 1615, tre anni dunque, ma questa è un’altra storia. La missione dei frati è quella di imparare la lingua locale e di convertire la popolazione: eccoli dunque di ritorno dopo circa un anno con i sei Tupinamba “convertiti”. Arrivati in Francia, in poco tempo i sei piccoli indiani si ammalano (il contatto con la folla gli è fatale), ne sopravvivono solo tre. Saranno battezzati in pompa magna il giorno 24 giugno 1613 nel Convento di Saint-Honoré: tre piccoli indiani ai quali non rimarrà neppure il nome: Itapoucou è battezzato Louis Marie, Ouaroyio diventa Louis Henri, Iapouray sarà Louis de Saint Jean. Si chiude il circolo, missione compiuta. Gli ex-cannibali vestono per l’occasione una tunichetta bianca, tengono in mano uno stelo di giglio con tre fiori, come tre sono i gigli nello stemma dei Valois, la casata regnante. Lo stesso Re Luigi XIII sarà il padrino, la regina madre Maria de’ Medici fungerà da madrina. Un evento mediatico ben congegnato: convertire i Tupinamba e ammansirli è certo utile ai fini della politica estera e della gloria della Chiesa, ma lo è ancor di più alla politica interna: dopo i lunghi terribili anni delle guerre di religione che hanno devastato la Francia, questo evento contribuirà a promuovere la coesione nazionale e la conversione dei Francesi alla Controriforma cattolica.

Niente di strano allora che, con tutto quel fracasso, senza un particolare motivo se non la pervasiva stupidità delle mode, si comincino a chiamare Topinambur alcuni tuberi bitorzoluti di provenienza americana recentemente introdotti in Francia, forse anche per la scherzosa assonanza con la parola tubercule, chissà. Sennonché il topinambur con il Brasile non ha niente a che fare, perché è di origine nordamericana. Questo iniziale buffo equivoco genererà in alcuni ambienti una certa confusione sull’origine dei piccoli girasoli che si protrae fino a Linneo e oltre. Egli gli assegnerà il nome latino di Helianthus tuberosus e ne riconoscerà correttamente l’origine canadese nel Hortus Cliffordianus del 1737. Perché più tardi, nel 1753 (Species Plantarum), corregge, sbagliando, il luogo di origine e indica il Brasile? Le fonti erano realmente così incerte e ambigue?

Credo di no. O almeno non all’inizio. I tuberi di topinambur hanno persino uno “scopritore” ufficiale, cosa non frequente nella storia delle piante alimentari. Siamo all’inizio del XVII secolo. Tra corsari e avventurieri di ogni sorta, che scorrazzano per mari e monti in Nordamerica, per buona parte ancora inesplorata, ci sono naturalmente anche molti francesi. Cacciano e commerciano pellicce in Virginia, pescano merluzzi al largo di Terranova, esplorano l’entroterra alla ricerca di miniere d’oro, cercano – ancora! – il passaggio a nord per la Cina e un favoloso regno, uno dei tanti, quello di Saguenay. Qualcuno muore per le frecce degli indiani, molti si fanno la pelle l’un l’altro, la maggior parte crepa di scorbuto. Il nostro eroe, Samuel de Champlain di professione cartografo, parte per l’Acadia nel 1603. È il suo primo viaggio nel Nordamerica, il primo di un’intera vita passata fra Francia e Canada in un continuo andirivieni. Il suo destino sarà quello di fondare Québec e il primo nucleo politico di quello che diverrà il Canada francese. Arrivato nel paese degli Uroni e degli Algonchini, traccia mappe e tiene un diario nel quale registra gli accadimenti, descrive luoghi e incontri. Il 21 luglio 1605 si trova nei pressi di una baia alla quale dà il nome di Mallebarre (oggi Nauset Harbor, nel Massachusetts, USA). Decide di fare una piccola ispezione tutt’intorno prima di recarsi alle capanne degli Uroni che deve visitare. Vede un campo coltivato a mais che è in fiore. Vede zucche di misure diverse, del tabacco e «delle radici che gli indiani coltivano, che hanno il gusto di carciofo». Ecco, sono loro.

Samuel Champlain, Voyages, Paris, 1613

Durante l’estate del 1606 Champlain viene raggiunto da un nuovo contingente di coloni, tra i quali c’è l’avvocato Marc Lescarbot. Anch’egli tiene una sorta di diario. Lo pubblicherà come Histoire de la Nouvelle-France nel 1609 dopo il suo ritorno in Francia. Come Champlain, vi scrive in modo abbastanza vago di alcune radici al gusto di cardo trovate «nella terra degli Armouchiquois». Nella terza edizione (1617) però ci dà informazioni ben più ampie e inequivocabili sul topinambur. Scrive: «Quando è stato necessario, Dio ci ha fatto trovare delle radici che oggi fanno la delizia di molte tavole francesi, che molti chiamano, da ignoranti, Toupinambaux, altri più correttamente Canada, visto che è da lì che son venuti»; e ancora, in un altro passaggio: «Ci sono anche, in questa terra, certi tipi di radici grosse come rape o tartufi, eccellenti da mangiare, con un gusto che dà al cardo molto piacevole che, piantate, si moltiplicano a dispetto di tutto, che è una meraviglia. Io credo che siano gli Asfodeli di Plinio. […] Sono buoni cotti sotto la cenere o crudi con pepe o sale e olio, questo è ciò che ne dice questo autore. […] Abbiamo portato qualcuna di queste radici in Francia e si sono talmente moltiplicate che ormai decorano ogni giardino. Le si mangia alla maniera di Plinio o cotti in acqua e conditi con burro e un po’ d’aceto. Non mi piace che si permetta ai venditori ambulanti di Parigi di chiamarli Toupinambaux. I Selvaggi li chiamano Chiquebi.» È qui del tutto evidente come negli otto anni tra la prima e la seconda edizione dell’Histoire sia intercorso qualcosa: il topinambur, cibo di emergenza per gli esploratori, tubero esotico dal gusto gradevole ma non particolarmente degno di nota, è ora ben conosciuto e tanto diffuso da essere venduto per le strade di Parigi.

Perciò quando Gabriel Sagard, frate converso dell’ordine dei Frati Minori Recolletti, viene inviato come missionario tra gli Uroni (1623-1624), mostra di aver ben chiaro che cosa ha di fronte: «Le radici che chiamiamo “Canadesi”, o “pommes du Canada”, e che loro [gli Uroni] chiamano Orasqueinta, non sono molto comuni nel paese. Le mangiano sia crude che cotte […], nello stesso modo che un altro tipo di radici che chiamano Sondhratates [probabilmente Glicine tuberoso, Apios americana Medik.]; queste ultime sono in verità molto migliori: ma non ce ne danno sovente, e solo quando ricevono da noi qualche dono o li visitiamo nelle loro capanne.»

Fabio Colonna, Ekfrasis, Roma, 1616
Il topinambur si propaga così facilmente da destare la meraviglia dei botanici. Ha un comportamento invasivo e in pochi anni si diffonde in tutta Europa. Nel 1616 Fabio Colonna lo descrive scientificamente per la prima volta nell’Ekfrasis, opera che celebra la magnificenza degli Horti del Cardinale Farnese sul Palatino a Roma, una delle collezioni botaniche più preziose del tempo. È possibile che vi sia arrivato direttamente dalle colonie bypassando la Francia grazie alle ottime relazione che il curatore Tobia Aldini intrattiene con i Gesuiti delle missioni. Qualche anno più tardi, nel 1625, lo stesso Aldini dà alle stampe una descrizione degli Horti Farnesiani, in cui scrive pure dei modi in cui è solito cucinare i tuberi, di cui viene «spesso richiesto dagli amici […] si possono mangiare crudi con sale e pepe, perché sono dolci. Ma al mio palato sono più grati cotti sotto la cenere calda o bolliti; in questo modo anche solo con sale e pepe sono più buoni. Una volta cotti, talvolta li facciamo in insalata con olio, aceto, sale, pepe, come le pastinache; talaltra tagliati a fettine […], li friggiamo nell’olio o nel burro e alla fine li condiamo con succo d’arancio, pepe e sale. […] Di tanto in tanto li friggiamo impanati in farina come si fa con il pesce, oppure li soffriggiamo nell’olio aggiungendovi mentuccia e sale, come si fa con i funghi [al funghetto!]. Talvolta, a mo’ di rape, li lasciamo cuocere a puntino nel grasso…» Bé, più che una pagina di botanica a tutta l’aria di una ricetta di gastronomia!

Collezionare piante è ora il massimo dello sfoggio di potere ed eleganza e l’aristocrazia europea fa a gara per avere nei propri giardini le specie esotiche più rare e magnifiche di cui via via si viene a conoscenza nelle colonie. Si scambiano semi, radici e piante a stretto “giro di posta” in una fitta rete di scambi. Nel 1617 il botanico inglese John Goodyer riceve due piccolissimi tuberi di topinambur da sir John de Franqueville, ricco mercante di origine francese residente a Londra, anch’egli appassionato collezionista di piante, che a sua volta li ha avuti da Jean e Vespasien Robin, giardinieri a servizio del re di Francia, con i quali è in corrispondenza. Anche in Inghilterra la pianta si propaga meravigliosamente e in poco tempo i tuberi diventano cibo comune. Nel 1621 Goodyer scriverà in una lettera: «Queste radici vengono preparate in diverse maniere; alcuni le fanno bollire in acqua, e dopo le stufano con vino e burro, aggiungendovi un po’ di zenzero; altri le cuociono in pasticci, aggiungendo midollo, datteri, zenzero, uvetta, vino, ecc. Altri in vari modi ancora, guidati dalla loro abilità in cucina. Ma a mio giudizio, uguale il modo in cui vengono preparate e mangiate, agitano e provocano un disgustoso e ripugnante movimento all’interno del corpo, causando male e tormento alla pancia, e sono un alimento più adatto ai suini che agli uomini: eppure alcuni dicono che le mangiano comunemente e non hanno riscontrato una tale ventosità [flatulenza].» Oh, oh, che succede? Forse il gusto di carciofo non basterà più a farli piacere.

John Parkinson, Paradisi in Sole, London,1629
Alcuni anni dopo il rigoroso botanico inglese John Parkinson in un libro dal titolo molto suggestivo, Paradisi in Sole Paradisus Terrestris, li chiama Battatas of Canada e così scrive: «in Inghilterra, per colpa di qualche pigro ignorante, li abbiamo chiamati Carciofi di Gerusalemme [Jerusalem artichoke], solo perché le radici bollite hanno il sapore dei cuori di carciofo […] sarebbe meglio chiamarli invece Patate del Canada perché i Francesi li hanno portati dal Canada. […] sono veramente comuni qui a Londra, tanto che anche la gente più modesta comincia a disdegnarli, mentre, quando sono arrivati, erano considerati squisitezze da regina.» Siamo nel 1629, il topinambur ha già infestato mezza Europa ed altrettanto velocemente è già passato di moda.

Nonostante ciò continua a venir coltivato. È ormai cibo contadino, o cibo da maiali, e le sue foglie sono un ottimo foraggio per il bestiame. Contemporaneamente si diffonde anche la coltura di un’altra pianta americana introdotta in Europa in epoca appena precedente: la patata. Topinambur e patata hanno alcune caratteristiche in comune: sono facili da coltivare e sviluppano tuberi sotterranei ricchi di glucidi che “riempiono” lo stomaco, per questo possono costituire una base alimentare nei tempi di carestia in sostituzione del pane. Presto i loro nomi si iniziano a sovrapporre e confondere: entrambe vengono chiamate pomi o pere sotterranee o di terra (da cui crompire o grompir, da grund birn o grond peer, pere di terra per l’appunto), batate, patate, topinambur, tartufi (bianchi o rossi) e tartufoli (termine italiano, da cui derivano il Kartoffel tedesco e il russo картофель per patata), con ulteriori molte varianti locali dialettali; solo l’inglese Jerusalem artichoke (carciofo di Gerusalemme, di etimologia incerta) e Canada o patate/pomi del Canada, attribuiti senza equivoci al solo topinambur, sfuggono a questa indistinzione.

Per farci un’idea del pasticciaccio in cui ad un certo punto si trovarono gli uomini di scienza, ecco quel che compare in varie edizioni dello stesso Dictionnaire universel di Furetière, opera popolarissima che fu ininterrottamente pubblicata dalla fine del XVII secolo fino ai nostri giorni: nella prima edizione del 1690 non si fa menzione del “topinambour”, né della “pomme de terre” (la patata). Ecco comparire la voce “topinambour" nell’edizione del 1727: «di un gusto dolce e piacevole, simile, quando sono cotti, a quello del carciofo. Li si prepara in diverse maniere. […] Il nome di topinambour gli è stato dato perché la sua origine viene dal paese dei Topinambours nelle Indie.» Che dire? Alla voce “pomme de terre” si è invece rimandati a “patate” (quella che in italiano è chiamata batata o patata americana, che mai si riuscì a coltivare in modo profittevole in Europa, nonostante i diversi tentativi) – «è la stessa cosa» vi è aggiunto: «“Patate” o “Batate” […] Le sue radici hanno un buonissimo sapore, assimilabile a quello delle castagne. Le si usa al posto del pane […] nome latino Convulvulus Indicum batatas.» E allora? Il Convulvulus Indicum batatas è certo sì la batata, il cui sapore effettivamente ricorda quello delle castagne, ma non la patata. Nell’edizione del 1732 la voce “topinambour” c’è ancora, ma quella “pomme de terre” sparisce. Nell’edizione del 1771, infine, “pomme de terre” ricompare ma la voce è rimandata a “topinambour”.

Così nell’Encyclopedie di Diderot del 1765 troviamo in una voce dal titolo frettolosamente cumulativo “Pomme de terre, Topinambour, Batate, Truffe blanche, Truffe rouge”. «[…] Questa radice, uguale il modo di prepararla, è scialba e farinosa. Non si pò annoverarla fra gli alimenti piacevoli; ma fornisce un alimento abbondante e abbastanza salutare per gli uomini che non chiedono che di sostentarsi. […] gli si rimprovera di essere ventoso, ma che è un po’ di vento per gli organi vigorosi dei paesani e degli operai?» È a firma Louis de Jaucourt, lo stesso che alla voce “Fame”, sempre sull’Encyclopédie, scrive: «Che sensazione singolare! Che senso meraviglioso è la fame! Non è precisamente dolore, è un sentimento che provoca inizialmente solo un po’ di solletico, un fremito leggero; ma che si rende impercettibilmente sempre più invadente e non meno difficile da sopportare del dolore stesso…»

Bonelli Giorgio, Hortus Romanus juxta systema Tournefortianum, Roma, 1772-1793
La confusione sembra dunque regnare principalmente per non dire esclusivamente nell’ambiente degli scienziati e degli intellettuali appartenenti alle élite che di quel cibo non si nutrivano. Cibo per poveri, cibo della fame, vuol dire anche cibo di guerra. Il topinambur cresce sotto terra. Ha quindi maggiore facilità a sopravvivere alle gelate né si piega al vento come il grano e, soprattutto, resiste più facilmente alle distruzioni volontarie e al calpestìo dovuto al passaggio della soldataglia. Claude-Marc-Antoine Varenne de Beost pubblica a Digione nel 1772 La cucina dei poveri o Collezione delle migliori memorie – sia per rimediare ai casi di carestia del grano, che per indicare alla persone meno agiate i mezzi per vivere. Riporta un articolo tradotto dal tedesco: «Non c’è militare che non sappia quanto questa verdura ha possentemente contribuito alla sussistenza delle nostre armate in Germania. Sia i soldati che gli officiali lo mangiavano nelle loro zuppe o preparati in altre maniere. Non abbiamo avuto posto di guardia nel nostro esercito dove i soldati non lo abbiano lasciato cuocere tutta la notte per mangiarlo. La prova più certa che questa verdura è sana e di facile digestione è che, per quanti eccessi se ne facciano, non se ne è incomodati.» È sempre in terra tedesca che il farmacista Antoine-Augustin Parmentier, considerato in Francia il padre della patata, imparerà a distinguere ed usare sia la patata che il topinambur nel corso della sua prigionia durante la guerra dei sette anni (dal 1756 al 1763). I Francesi leggeranno molto bene il capitolo sulla patata e meno bene quello sul topinambur. Ma durante gli anni della II° Guerra mondiale, sotto l’occupazione nazista, anche gli spocchiosi parigini dovranno reimparare a nutrirsene. Niente di strano che dopo anni di soli rutabaghe e topinambur, finita la guerra, per un bel po’ di tempo abbiano preferito dimenticarsene.

Alphonse de Candolle, Mémoires du Muséum d’Histoire naturelle, Paris, 1815
Da qualche anno però il topinambur è tornato in àuge. Persino i Francesi hanno ripreso a mangiarlo. Curiosamente, lo si mangia per motivi quasi opposti a quelli dei contadini belgi e tedeschi del XVII e XVIII secolo. Per loro era importante rimpinzarsi il più possibile. Più calorie c’erano, meglio era. Oggi invece viene mangiato da chi vuole dimagrire e tenere sotto controllo i livelli glicemici (gli obesi e i diabetici). Come ci si può aspettare, viene anche consigliato per abbassare il colesterolo. Non contenendo amido ma inulina (un polimero glucidico composto da fruttosio anziché glucosio) avrebbe un “basso apporto di calorie” e un “basso indice glicemico”. Inoltre sarebbe utile per chi soffre di cattiva digestione e ottimo per riattivare l’intestino pigro, perché favorisce la “mobilità” intestinale. A questo proposito, come mai contemporaneamente addirittura “previene la formazione dei gas”? Siamo di fronte ad un mutante? Qualcosa di radicalmente diverso dal topinambur di un paio di secoli fa? Mah. Inoltre aumenterebbe, secondo le schede, il senso di sazietà. Ok, qua ci siamo.

Per via di queste caratteristiche dietetiche anche i più altezzosi chef stellati ormai lo utizzano. Viene sbucciato, affettato fine fine, caramellato, cotto sotto vuoto, fritto e ricomposto con la sua buccia in forma di carciofo. Niente male per un tubero di tale ascendenza, per questo cibo da maiali! Viene mangiato anche crudo in insalata sempre a fettine o à la julienne e condito con limone o aceto di sidro. Va bene. O nella solita (antica) formula olio pepe sale. Va da sé che quasi nessuno sappia da dove venga e che quelle belle margherite gialle molto simili a piccoli girasoli che si vedono talvolta fiorire in riva ai fiumi fra agosto e novembre altro non sono che la sua forma selvatica. I Piemontesi tetragoni non si fanno né in qua né in là e sostengono che il ciapinabò da loro si è sempre mangiato e che insieme ai gobbi e ai peperoni si deve considerare un ingrediente irrinunciabile del piatto più tradizionale che c’è da loro, la bagna càuda.


Bibliografia

L’entrée à Rouen du roi et de la reine, Henri II et Catherine de Médicis, 1550, Société des bibliophiles normands, 1885
Léry Jean de, Histoire d’un voyage fait en la terre du Bresil, autrement dite Amerique, La Rochelle, 1578
Lescarbot Marc, Histoire de la Nouvelle France, Paris,1612
Firens Pierre, Sauvages amenez en France pour estre instruits dans la Religion Catholique, Paris, 1613
Champlain Samuel, Voyages, Paris, 1613
Champlain Samuel, Voyages, 1604-1618, New York, 1907
Champlain Samuel, Voyages, Paris, 1830
Abbeville Claude de, Histoire de la mission des Pères capucins en l’isle de Maragnan, Paris, 1614
D’Évreux Yves, Suitte de l’Histoire des choses memorables 1613-1614, Paris, 1615
Colonna Fabio, Ekfrasis, Roma, 1616
Lescarbot Marc, Histoire de la Nouvelle-France, Paris, 1617
Lescarbot Marc, Histoire de la Nouvelle-France, Paris, 1618
Aldini Tobia, Castelli Pietro, Exactissima Descriptio Rariorum Quarundam Plantarum, Roma, 1625
Parkinson John, Paradisi in Sole, London, 1629
Sagard Gabriel, Le grand voyage du pays des Hurons, Paris, 1632
Cornut Jacques-Philippe, Canadensium Plantarum Historia, Paris, 1635
Parkinson John, Theatrum Botanicum, London, 1640
Linneo Carl, Hortus cliffordianus, Amsterdam, 1737
Linneo Carl, Species Plantarum, Stockholm, 1753
Varenne de Beost Claude-Marc-Antoin, La cuisine des pauvres, Dijon, 1772
Denis Ferdinand, Brasile, Venezia, 1838
Morren Charles, Journal d’Agriculture pratique de Belgique, Gand, 1848
Malherbe François, Oeuvres, Paris, 1862
Sulte Benjamin, Histoire des Canadiens-Français, Montreal, 1882
Candolle de Alphonse, Origine des plantes cultivées, Paris, 1886
Gibault Georges, Histoire des legumes, Paris, 1912
Gunther Robert Theodore, Early british botanists, Oxford, 1922
Shoemaker D. N., Jerusalem Artichoke, Washington, 1927-1937
Grieve Maud, A Modern Herbal, Darien, 1970
Bruneau Charles, Les noms de la pomme de terre en Belgique romane in Études de dialectologie romane, Genève 1980
Kuhnlein, Turner, Traditional Plant Foods of Canadian Indigenous Peoples, Amsterdam, 1996
Penjon Jacqueline, Quint Anne-Marie, Vents du large, Paris, 2002
Kays Stanley, Nottingham Stephen, Biology and Chemistry of Jerusalem Artichoke, USA, 2008
Francoeur Jean-Marie, Genese de la cuisine québécoise, Canada, 2011
Gentilcore David, Food and Health in Early Modern Europe: Diet, Medicine and Society, 1450-1800, London, 2016
Kawaguchi Yuji, Pomme de terre “potato” in French, Tokyo, 2017
Carvalho Sérgio de, A teatralidade fora de lugar, São Paulo, 2017
Wintroub Michael, L’entrée royale d’Henri II à Rouen, Paris, 2018
Doher Andrea, A envencao capuchinha do selvagem, Rio de Janeiro, 2018

Mie le traduzioni